“Ero malato e siete venuti a visitarmi”
Nella Bibbia il mantello designa la dignità, l’identità e i diritti del proprietario. Privare un uomo del suo mantello è privarlo della sua dignità. La norma mira al cuore e al buonsenso: il mantello va restituito prima della notte perché è l’unica coperta che permette di difendersi dal freddo. Il primo passo della compassione è restituire all’altro la sua dignità.
“Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo
glie lo renderei al tramonto del sole perché è la sua sola coperta,
è il mantello per la sua pelle come potrebbe coprirsi dormendo?” (Es. 22,25-26)
Dott. Alberto MAPELLI: già Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Cure Palliative di Giussano La parola palliativo può anche essere pensato in medicina come un rimedio che mitiga un male, ma non lo risolve, non porta alla guarigione. È significato riduttivo se interpretato secondo i concetti della medicina tradizionale. Si può parlare a lungo di chi ha perso la salute. Stasera il discorso è più pregnante ed orientato verso le malattie serie e a prognosi infausta, che non hanno possibilità di guarigione.
Palliativo deriva dal latino pallium, cioè mantello e vuole indicare il prendersi cura del malato con lo scopo di restituirgli qualità di vita privilegiando la comunicazione e accompagnandolo dignitosamente nel (e non a) morire. Quindi stando vicino anche alla famiglia. Per questo le cure palliative sono concepite in equipe che interagiscono tra di loro con l’ammalato e la famiglia. Nel campo sanitario non esiste altro campo dove si lavora in equipe di persone completamente diverse. Il servizio è erogato in rete, con queste modalità si mette a disposizione dei pazienti che hanno bisogno anche la “ospedalizzazione domiciliare”. Questo concetto di cure palliative è una nuova cultura che nasce intorno agli anni ’60-’70. Non esiste una specialità di cure palliative, ma nel 2009 è stata promulgata la legge 38 istitutiva in Italia delle cure palliative. Alcune premesse culturali e di ordine pratico: Dove non è più possibile guarire bisogna curare: divinum est sedare dolore. Le cure palliative nascono come servizio a persone con malattie a prognosi infausta prevalentemente di tipo tumorale. Realizzare l’opera divina di togliere dolore al paziente che ha dolore. Il paziente viene dimesso: quando l’ospedale ritiene di non poter più attuare terapia dimette il paziente. La cultura delle cure palliative si è fatta carico di trovare un equilibrio di presa in carico che riesca ad evitare l’abbandono terapeutico. Il paziente rischia di essere abbandonato oppure di finire nell’estremo opposto dell’accanimento terapeutico. Le cure palliative accolgono l’ammalato per evitare l’una deriva e l’altra che possono portare alla richiesta di eutanasia o suicidio assistito. Esiste l’ammalato non la malattia: non c’è una realtà uguale all’altra, emerge il valore della persona, del singolo. Le cure palliative sono proprio per questo realizzate in equipe: medici, infermieri, psicologo, assistente sociale, assistente spirituale, volontari. Il paziente è al centro dell’attenzione. Tutti devono chiedersi qual è il bene del paziente e della famiglia. Tutta l’equipe con in testa il medico ciascuno con il suo ruolo devono realizzare la cd alleanza terapeutica condivisa. Tutto quello che viene fatto per il paziente è frutto di un ideale rapporto con il paziente e tutto deve essere condiviso. Ciò funziona nella misura in cui funziona l’interscambio delle informazioni e tutto deve essere modulato nel rispetto fondamentale del venir meno della vita: cure palliative vuol dire no accanimento. Ci vogliono scelte oculate di farmaci, togliere tutto ciò che non è più strettamente necessario ad evitare che i farmaci diventino tossici. Ciò che non serve più viene eliminato motivandolo al paziente, mantenendo i farmaci che servono alla qualità di vita per vivere il meglio possibile i giorni che restano da vivere. Soprattutto il discorso viene realizzato privilegiando presenza, contatto, ascolto e la comunicazione col paziente, ciò che nel reparto degli acuti non c’è più tempo di fare. Vittorino Andreoli afferma un principio secondo il quale “il farmaco cura la malattia la parola cura il malato”. Dove il farmaco non può più aire bisogna curare la persona perché ha una sua dignità. Il medico nel comunicare deve trovare equilibrio tra verità e speranza, senza illudere il paziente né farlo cadere in depressione. In queste situazioni valore particolare assume l’assistenza spirituale rispettosa del credo di ciascuno. A volte ci sono rapporti da ricomporre con familiari ed è bello poter dare il tempo per risolvere certi problemi. Per es. il volontario che comunica il desiderio del paziente di incontrare il fratello. I volontari sono un valore aggiunto preziosissimo per la gratuità della loro presenza che consente loro di andare in profondità col paziente più di quanto non possa fare la figura istituzionale. Il problema è che poi tutto deve essere comunicato nell’equipe. L’auspicio è che la cultura delle cure palliative si diffonda sempre di più ad armonizzare i protocolli delle medicine specialistiche e generali. La terminalità inizia quando la medicina tradizionale non può più fare nulla: l’auspicio è che non ci sia distacco fra medicina specialistica e cure palliative. Questa cultura ha radici lontane e se vogliamo laiche: il giuramento di Ippocrate risale al 350 a.C. e dice: in caso di malattia a prognosi sicuramente infausta il medico deve limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela per quanto possibile della qualità di vita. È bello vedere che a un certo punto spirito laico e cultura solidaristica cristiana si incontrano come risposta unica e più sensata per la risposta al paziente nel fine vita. Il mondo di oggi cerca soluzioni tecniche per chi si trova abbandonato e senza risposte per la sua sofferenza: l’unica alternativa per arginare questa situazione è la cultura delle cure palliative che ci consenta di accompagnarci con qualità di vita nel morire.
Donatella COSCO: Insegnante e volontaria Associazione Porta Aperta per l’assistenza ai malati oncologici e famiglieQuesta sera un signore mi ha chiesto se fossi emozionata in questa circostanza. Ho risposto “no” perché sono abituata a parlare, ma un po’ lo sono perché pur trovandomi in un contesto un po’ lontano dal mio sento che ci sono molte cose in comune. Vorrei partire dalla parola importante che è al centro questa sera ossia la misericordia: non sto a spiegare a voi il concetto dal punto di vista religioso, ma ve lo voglio spiegare dal punto di vista laico come lo intendo e vorrei richiamare il termine ebraico RAHAMIN che è il termine che indica misericordia in ebraico e che indica le viscere materne: quindi noi possiamo intendere la misericordia come spazio che noi facciamo all’interno di noi per la vita dell’altro. Questo è ciò che facciamo noi volontari: creiamo uno spazio dentro di noi per vari motivi per la vita dell’altro in un momento particolare perché è la parte finale della vita. È una forma di vita estrema e anche la nostra attività lo è. Faccio la maestra, sono diventata volontaria per una situazione particolare: ho conosciuto la malattia per una persona cara, un’amica giovane che aveva appena partorito il suo bambino e si è ammalata di un male incurabile. Allora ero molto inesperta di queste cose e ricordo una frase “non c’è più nulla da fare”. Ebbene quando andavo a trovare questa ragazze che era in coma oramai, c’era una signora che era in camera con lei ricoverata che mi diceva “ma sai Donatella che quando tu vieni qui, questa ragazza sta bene, respira bene, è tranquilla, quando te ne vai si agita?” questo racconto di questa vicina di letto mi fece pensare molto, combinazione in quel periodo stava nascendo Porta Aperta sicché è stato un incontro molto felice che mi ha regalato tanto. Diventare volontari di un’associazione che si occupa di malattie di questo tipo non è una passeggiata, ci vogliono motivazioni molto forti. La gente si blocca quando affrontiamo questi argomenti. Facciamo un corso di formazione iniziale, sosteniamo un colloquio con uno psicologo formatore, dopodiché se accettiamo di fare questo tipo di volontariato dovremo fare un corso di formazione permanente con uno psicologo che ci aiuta a discutere le esperienze che viviamo a domicilio perché facciamo parte di un’equipe multidisciplinare: medici, infermieri, fisioterapisti, assistenti spirituali…ciascuno ha il suo compito preciso quello del volontario è il compito più complicato perché non abbiamo un compito preciso: non esiste un protocollo, non esiste una ricetta, però la cosa bella della formazione permanente è che è come se frequentassimo una palestra di pensiero. Non è che riceviamo una ricetta, ma possiamo discutere e confrontare le nostre esperienze e capire come affrontare i vari i problemi che si presentano a domicilio. Noi volontari siamo soggetti un po’ a pregiudizi: di solito la gente pensa che quando andiamo dai malati si parla della morte, preghiamo etc.. Invece non è così: noi quando andiamo a casa dell’ammalato parliamo di vita: questa è la cosa straordinaria, quasi un miracolo. A casa degli ammalati troviamo una situazione che viene definita di dolore totale: e come che l’ammalato e la sua famiglia abbandonassero la terra dove si trovano e andassero in un altro pianeta. A casa dell’ammalato si vive una vita totalmente diversa da prima. C’è un prima e c’è un dopo. La persona malata ha perso il suo ruolo e si sente privato della sua vita e deve entrare in una vita nuova spesso fatta da cose molto faticose: terapie, visite, falsa speranza, pregiudizio della gente. A casa del malato c’è un caos perché si susseguono tante persone. Il fattore dominante è la stanchezza, oltre all’amore. Dobbiamo metterci in ascolto, una delle caratteristiche fondamentali è l’ascolto. Il malato ha tante esigenze: per la persona allettata è difficile stare in quella posizione. Bisogna girarla, spostare le braccia, alzare la tapparella. Tutto questo in continuazione stanca i famigliare. Il volontario aiuta a vivere questa sue necessità senza che il malato si senta in colpa. Anche questo è un miracolo: noi siamo degli sconosciuti e i famigliari ci affidano il loro famigliare che è la persona più cara che hanno. Ogni volontario ha il suo ammalato e viceversa. Vai a casa di una persona che non conosci e richiedi di cosa possiamo parlare: però ti siedi, bastano due parole e già si crea un’intimità. Non è mai successo che qualche famiglia abbia rifiutato il volontario. Un’altra caratteristiche che affrontiamo è il senso di vergogna: la malattia ti mette in condizioni di inferiorità rispetto alle altre persone. Non ti senti capito, non ti vuoi lamentare, ma a volte non ne può fare a meno. Il famigliare ha la sua vita le esigenze; andare dal medico, prendere i figli da scuola, fare la spesa, a volte andare dal parrucchiere. Il volontario concede un attimo di tregua: tutta la famiglia è sulle spalle della persona non malata. Il volontario consente al famigliare anche solo di prendere una boccata d’aria, di fare un telefonate. Noi entriamo in queste case come entrare in un pianeta sconosciuto. Dobbiamo stare attenti: a volte si sta in silenzio, qualche volta leggi un libro, spesso si parla di vita, di gossip. La cosa bella è che c’è sempre un progetto. Mi è capitato di assistere persone che magari si occupavano dell’orto e allora nasce un piccolo progetto: ci vediamo settimana prossima quando le mie fragole saranno mature così te ne do un po’; fra poco le mie rose fioriranno così potrai vedere come sono belle; magari il volontario andrà a veder un film, ci si lascia con la promessa di raccontare la volta prossima la trama; oppure la promessa di mangiare insieme un dolce; oppure il racconto della biografia dell’ammalato: questa è una cosa che avviene molto spesso. Ai famigliari quella vita l’hanno già raccontata molte volte: per la persona ammalata è importante raccontare la sua vita i suoi aneddoti e talvolta anche i segreti. Spesso quel segreto non è stato detto a nessuno, ma vien detto al volontario perché si stabilisce un’intimità che è estrema e in quell’estremo lì ci si incontra e ci si prende per mano e raccontare il proprio segreto al volontario è una forma di liberazione e di pacificazione. E ci si lascia spesso con “arrivederci”: in tutti questi anni che ho fatto la volontaria mai un malato mi ha parlato di voler morire, ma tutti mi hanno salutato sempre con un arrivederci. Lo dico perché appunto adesso si parla spesso in modo sbrigativo di eutanasia, suicidio assistito perché manca la cultura delle cure palliative. Le cure palliative sono un grande mantello avvolgente umano sicuro al quale ci possiamo affidare per non provare dolore fisico perché il dolore fisico spezza ed è quello che fa desiderare di lasciare questa terra insieme alla solitudine. Spesso dove c’è la malattia c’è la solitudine non perché la gente sia cattiva, ma perché la malattia spaventa, mette a disagio. Spaventa tutti anche i volontari: tante volte nei nostri incontri discutiamo del tema coinvolgimento. Spesso a casa del malato si parla della morte, ma non nel senso tragico che possiamo immaginare. È una domanda di curiosità; cosa ci sarà dopo? Spesso mi capita di fare delle bellissime conversazioni sul tema del dopo e pur appartenendo a mondi diversi ci sono tante cose che ci uniscono e che ci fanno capire che in questi momenti estremi si torna un po’ bambini e si ritrova fiducia in quelle cose belle che ci hanno raccontato quando eravamo piccoli, il paradiso, di un’accoglienza fatta di bontà e di amore. Questi sono argomenti che spesso vengono affrontati, ma con gioia, con curiosità, con interesse, ma mai con paura. A volte noi siamo fortunati, una volta ho colto un’inflessione molisana in un signore, mio padre era molisano, da lì è partita una conversazione, mi ricordava Campobasso e una via che percorrevo per andare a comprare il pane appena fatto. Gli ho raccontato questi miei ricordi e l’ho visto piangere e dirmi “grazie perché ho rivissuto una parte della mia infanzia”.
Don Lodovico GARAVAGLIA: Assistente spirituale presso l’Ospedale di Legnano. I tre amici di Giobbe prima di entrare nei particolari tipici della mentalità ebraica del tempo secondo la quale la malattia era espressione della punizione di Dio incontrano Giobbe per sette giorni, sette giorni e stanno in silenzio. Giobbe non parla, come nelle situazioni richiamate da Donatella in cui si può semplicemente stare lì vicini senza parlare e successivamente non riuscendo evidentemente e non dire quella che era la mentalità comune sottolineano che Giobbe deve averne combinata qualcuna se non Giobbe certamente i suoi. A me interessa riprendere la modalità di incontrare di i malati che richiama il catechismo. Molto di ciò che il dott. Mapelli e Donatella hanno detto sono espressione di ciò che la Chiesa dice del prendersi cura dei malati. Il Vangelo dice “Ero malato, mi avete visitato, ero malato e non mi avete visitato”: il verbo visitare dice non una visita di cortesia, ma un’azione efficace, concreta per aiutare e al tempo stesso i malati sono definiti attraverso un participio che indica una debolezza fisica alla quale uno da solo può porre rimedio: visitare gli infermi significa allora fare qualcosa di concreto nei confronti di queste persone che si trovano nella necessità. Le malattie sono molteplici, tantissime e al tempo stesso coloro che visitano i malati sono molteplici. I medici o i volontari curano, visitano il malato, sotto il punto di vista terapeutico o per intrattenersi: per una forma più generale, tenendo conto che ciascuno di noi può essere uno che visita i malati cosa si può più generalmente dire? Con papa Francesco possiamo dire che il visitare i malati può essere pesante ma certamente Dio non mancherà di trasformare questa pesantezza in qualcosa di divino. Noi rappresentiamo le persone che vanno a trovare la stessa persona di Gesù nel malato: ove dovesse mancare questo finiremo per dare di meno di quello che saremmo in grado di dare. Il credente che fa visita si prende cura del malato riconosce con umiltà che il Signore Gesù si è identificato col malato. Rivestito di questa sacra mentalità Cristica il malato chiede al visitatore di condividere una condizione di spoliazione, di impotenza, di povertà. Un visitatore che va da un malato con fare spavaldo, con in tasca la soluzione ha già sbagliato atteggiamento. Ecco perché chi va a visitare con questa mentalità l’ammalato deve andare con tanta discrezione, serenità. sorta di decalogo partendo dalla Bibbia e dalla mia esperienza di assistenza spirituale, in particolare nell’ambito delle malattie infettive. Ho segnalato dei metodi, delle modalità con cui avvicinare il malato e non solo quello con prospettiva terminale o acuti. Il papa viene a dirci che gli operatori pastorali sono chiamati a visitare non solo i cristiani, ma anche gli altri: giustamente il dott. Mapelli faceva riferimento a Madre Teresa di Calcutta.
- Combattere la malattia: Isaia incontra il re Ezechia e gli dà una notizia brutta “devi morire”. L’altro supplica fino a quando ottiene da Dio, annunciato dal profeta, che avrà ancora 15 anni di vita e porta avanti progetti che aveva abbandonato. Trovare la motivazione a vivere, affrontare il percorso con slancio.
- Realizzare fiducia in chi cura e assiste: combattere la sfiducia, ricordare che il medico è la longa manus di Dio come le medicine sono opera di Dio.
- Pensarsi attivi nonostante la malattia: tu hai un limite, cosa puoi fare pur non potendo fare questo? La patologia compromette l’utilizzo pieno del nostro copro, ma pensare che possiamo fare ancora qualcosa diventa motivo per dare fiducia.
- Autoesame o verifica del vissuto: modo per acquisire la vera e propria identità. Ci si conosce quando si ripassano le cose che si sono fatte e quando si mette in risalto quello che abbiamo fatto preferibilmente, quel che abbiamo fatto con gusto.
Ciò consente la scoperta del corpo e dello Spirito e quindi la realtà personale composta da anima corpo, spirito e materia e più scopriamo dentro noi l’interiorità più viviamo un rinnovato rapporto con noi stessi.
- Vivere la malattia senza paura, avere cioè la consapevolezza che la malattia è alla portata di tutti. Nessuno può dire con sicurezza di non ammalarsi mai: tutti siamo in un cammino di decadimento: in una prospettiva più alta alla maniera di Cristo, imparare a vivere e ad apprezzare la vita nonostante la sofferenza, nonostante le debolezze.
- Non colpevolizzarsi e/o colpevolizzare per il male: riferimento evidentemente ai malati di aids a coloro che hanno avuto vita sregolata, anche malati di tumore ai polmoni per il valorizzata.
- Non perdere il senso della positività: evitare la sfiducia, ma anche la negatività. Aiutare il paziente ad elaborare meglio il vissuto anche recente. A un certo momento il malato ritiene che va tutto male e che sia inutile far ogni cosa.
- Guidare all’essenziale. Quante cose si vorrebbero fare: calma! Adesso si può fare questo, adesso l’essenziale è che tu non rinuncia a fare questo.
- Assecondare o guidare ad accettarsi: spesso i malati di lunga degenza diventano un pochino egoisti, vogliono sempre vicino qualcuno, ma non sempre possibile. Occorre vedere e far capire che certi atteggiamenti sono fuori posto.
- 10. Quanto più non possiamo sperare negli uomini dobbiamo sperare in
Il dire tante storie per non dire la verità è devastante, in un contesto di fede io qui inserirei l’unzione degli infermi. Dobbiamo sperare nel Signore che attraverso questo sacramento ci dà l’aiuto indispensabile di cui abbiamo bisogno.
Alcuni momenti della serata
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